Immagine generata da Designer Image Creator, Microsoft |
La IA, l’ambiente marino e il Capodogliese.
A qualcuno potrebbe sembrare che quasi non si parli d’altro. In realtà stiamo aprendo finalmente gli occhi su un mondo in cui l’impiego della intelligenza artificiale è già consolidato in tutti i campi emergenti. La conservazione marina non fa eccezione.
Oceani monitorati da IA
Sviluppare una intelligenza in grado di trascenderci è probabilmente parte del nostro percorso evolutivo. La IA è stata impiegata da Global Fishing Watch per mappare le attività umane negli oceani e scovare flotte ombra attraverso un lungo percorso di machine learning. A Raine Island, in cima alla Grande Barriera Australiana, una IA ha contribuito notevolmente nel monitorare le tartarughe verdi, che proprio sull’isola formano la colonia più grande del mondo con circa 70.000 individui presenti contemporaneamente. Una IA sviluppata in Canada è capace di tracciare le microplastiche con un minimo errore e, in futuro non lontano, potrebbe intervenire nella gestione delle acque reflue e nella produzione e distribuzione dei prodotti alimentari. Le IA vengono utilizzate con successo dai ricercatori per valutare il livello di salute degli ambienti sia marini che terrestri, semplicemente analizzando i suoni che gli ecosistemi producono. Sull’analisi del suono sono stati fatti passi da gigante. Basterebbe pensare che Shazam è nata nel lontano 2002. Ma l’impiego della IA che ha fatto parlare i quotidiani di tutto il mondo, non solo i magazine specializzati, solleva importanti questioni.
Decifrare la lingua dei capodogli.
Il progetto CETI è il programma di ricerca sul linguaggio dei capodogli più avanzato al mondo. Basato sull’isola di Dominica, dove è stato da poco inaugurato il più grande santuario dedicato a questi enormi cetacei, si prefigge di decifrarne il linguaggio ed ha le carte in regola per divenire lo studio di riferimento se non il primo vero breaktrough nella comunicazione interspecie. I capodogli non solo hanno sviluppato un linguaggio ma dei veri e propri dialetti. Purtroppo, come invece è accaduto con i geroglifici, non abbiamo nessuna Stele di Rosetta che possa aiutarci a decifrarlo tramite un testo a fronte in un’altra lingua conosciuta. Abbiamo dei veri e propri dialoghi registrati dei quali non comprendiamo nulla. Abbiamo suoni, migliaia di campioni sonori che i capodogli emettono nelle varie circostanze, ma restano per noi incomprensibili. I ricercatori del CETI sanno che le IA hanno bisogno di volumi immensi di dati, come Chat GPT, portata in causa dal New York Times per un data-scraping senza precedenti. IL CETI, attraverso droni, ROV, telecamere e sensori satellitari sta facendo man bassa di dati (stavolta liberi da copyright) per collegare i click e le modulazioni che i ricercatori chiamano code con situazioni, atteggiamenti, ambienti, comportamenti. In questo scenario di ricerca un percorso senza un tipo di machine learning è totalmente impensabile. Questa, insomma, è la notizia che ha fatto più scalpore sull’impiego dalla IA nel nostro ecosistema preferito. wow, direte voi.
C’è un grosso ma.
Tutte le IA avanzate generano legittimi dubbi
In questo caso i dubbi arrivano, fortunatamente, ben prima dei risultati. Il progetto CETI ha assicurato di servirsi solo di IA ‘etiche’ e sulle quali manterrà un forte controllo ma non esiste solo il CETI. Sappiamo che qualsiasi tecnologia, una volta sviluppata, fatica a restare chiusa nel suo recinto fatto di buone intenzioni. La comprensione del linguaggio animale pone le basi ad uno sviluppo che possiamo già prevedere senza sforzi di fantasia: la capacità di riprodurlo a nostra volta artificialmente. I primi dubbi sono di carattere etico: siamo sicuri di voler rompere questa barriera interspecie? Qui non si tratta di immaginare un mondo dove i topolini parlano e cantano con Cenerentola, si tratta di scoperchiare un eventuale vaso di Pandora. Una volta rotto il tabù e consolidata la tecnologia, siamo sicuri di non volerci provare con le altre specie? Quanto può essere utile per i capodogli (e per le altre specie) venire compresi e poi, inevitabilmente, la nostra capacità di dialogare con loro? Karen Bakker, la più eminente studiosa del tema, scomparsa recentemente in modo prematuro e autrice del saggio ‘The Sounds of Life’, mette tutti in guardia. Non sull’intelligenza artificiale in sé, né sul suo uso nella ricerca ambientale marina ma sulla mancanza di un quadro etico e legislativo intorno alla comunicazione interspecie. Ci ricorda che (come è già successo con tante altre applicazioni) stiamo allegramente sviluppando qualcosa di cui potremmo pentirci amaramente.
A qualcuno potrebbe sembrare che quasi non si parli d’altro. In realtà stiamo aprendo finalmente gli occhi su un mondo in cui l’impiego della intelligenza artificiale è già consolidato in tutti i campi emergenti. La conservazione marina non fa eccezione.
Oceani monitorati da IA
Sviluppare una intelligenza in grado di trascenderci è probabilmente parte del nostro percorso evolutivo. La IA è stata impiegata da Global Fishing Watch per mappare le attività umane negli oceani e scovare flotte ombra attraverso un lungo percorso di machine learning. A Raine Island, in cima alla Grande Barriera Australiana, una IA ha contribuito notevolmente nel monitorare le tartarughe verdi, che proprio sull’isola formano la colonia più grande del mondo con circa 70.000 individui presenti contemporaneamente. Una IA sviluppata in Canada è capace di tracciare le microplastiche con un minimo errore e, in futuro non lontano, potrebbe intervenire nella gestione delle acque reflue e nella produzione e distribuzione dei prodotti alimentari. Le IA vengono utilizzate con successo dai ricercatori per valutare il livello di salute degli ambienti sia marini che terrestri, semplicemente analizzando i suoni che gli ecosistemi producono. Sull’analisi del suono sono stati fatti passi da gigante. Basterebbe pensare che Shazam è nata nel lontano 2002. Ma l’impiego della IA che ha fatto parlare i quotidiani di tutto il mondo, non solo i magazine specializzati, solleva importanti questioni.
Decifrare la lingua dei capodogli.
Il progetto CETI è il programma di ricerca sul linguaggio dei capodogli più avanzato al mondo. Basato sull’isola di Dominica, dove è stato da poco inaugurato il più grande santuario dedicato a questi enormi cetacei, si prefigge di decifrarne il linguaggio ed ha le carte in regola per divenire lo studio di riferimento se non il primo vero breaktrough nella comunicazione interspecie. I capodogli non solo hanno sviluppato un linguaggio ma dei veri e propri dialetti. Purtroppo, come invece è accaduto con i geroglifici, non abbiamo nessuna Stele di Rosetta che possa aiutarci a decifrarlo tramite un testo a fronte in un’altra lingua conosciuta. Abbiamo dei veri e propri dialoghi registrati dei quali non comprendiamo nulla. Abbiamo suoni, migliaia di campioni sonori che i capodogli emettono nelle varie circostanze, ma restano per noi incomprensibili. I ricercatori del CETI sanno che le IA hanno bisogno di volumi immensi di dati, come Chat GPT, portata in causa dal New York Times per un data-scraping senza precedenti. IL CETI, attraverso droni, ROV, telecamere e sensori satellitari sta facendo man bassa di dati (stavolta liberi da copyright) per collegare i click e le modulazioni che i ricercatori chiamano code con situazioni, atteggiamenti, ambienti, comportamenti. In questo scenario di ricerca un percorso senza un tipo di machine learning è totalmente impensabile. Questa, insomma, è la notizia che ha fatto più scalpore sull’impiego dalla IA nel nostro ecosistema preferito. wow, direte voi.
C’è un grosso ma.
Immagine generata da Designer Image Creator Microsoft |
Tutte le IA avanzate generano legittimi dubbi
In questo caso i dubbi arrivano, fortunatamente, ben prima dei risultati. Il progetto CETI ha assicurato di servirsi solo di IA ‘etiche’ e sulle quali manterrà un forte controllo ma non esiste solo il CETI. Sappiamo che qualsiasi tecnologia, una volta sviluppata, fatica a restare chiusa nel suo recinto fatto di buone intenzioni. La comprensione del linguaggio animale pone le basi ad uno sviluppo che possiamo già prevedere senza sforzi di fantasia: la capacità di riprodurlo a nostra volta artificialmente. I primi dubbi sono di carattere etico: siamo sicuri di voler rompere questa barriera interspecie? Qui non si tratta di immaginare un mondo dove i topolini parlano e cantano con Cenerentola, si tratta di scoperchiare un eventuale vaso di Pandora. Una volta rotto il tabù e consolidata la tecnologia, siamo sicuri di non volerci provare con le altre specie? Quanto può essere utile per i capodogli (e per le altre specie) venire compresi e poi, inevitabilmente, la nostra capacità di dialogare con loro? Karen Bakker, la più eminente studiosa del tema, scomparsa recentemente in modo prematuro e autrice del saggio ‘The Sounds of Life’, mette tutti in guardia. Non sull’intelligenza artificiale in sé, né sul suo uso nella ricerca ambientale marina ma sulla mancanza di un quadro etico e legislativo intorno alla comunicazione interspecie. Ci ricorda che (come è già successo con tante altre applicazioni) stiamo allegramente sviluppando qualcosa di cui potremmo pentirci amaramente.
Qualcosa che in mani poco etiche potrebbe favorire il saccheggio dei mari in modo esponenziale e irreparabile.
Questo articolo è stato pubblicato su Scubazone n°72
Qui sotto gli articoli di riferimento: per ImperialEcoWatch
sono stati approfonditi i vari aspetti: