COME E’ NATA L’IDEA DI FIGLI DI UNA SHAMANDURA?
Eravamo tutti a Sharm el Sheikh, tutti istruttori subacquei
con un po’ di mari alle spalle e arrivava un altro inverno. Era il momento
giusto per partire alla scoperta del prossimo paradiso delle immersioni, le
immersioni che non hai ancora fatto. Ma anche del luogo dove diventare adulti,
ovvero: mettere su un nostro centro subacqueo. Farlo in Egitto, all’epoca, era
complicatissimo. Steve fu il primo a partire, per l’Honduras. Seguì Billo, che
poi finì in Thailandia, io e Franz ce ne andammo in Australia. Lui ci restò per
un anno buono, io tornai a Sharm el Sheikh, dalla mia compagna di allora, e poi
me ne andai con lei a ficcanasare in Spagna. Le email che ricevevo erano di
protesta: gli amici lontani non ricevevano più i miei resoconti da Sharm el
Sheikh e questo li indispettiva. Pensai che meritassero un libro. Su di loro. In
una mansarda al sud della Costa Blanca iniziai a riempire fogli scritti a
matita ascoltando Oasis, Verve, Transglobal Underground, Robbie Williams, Fatboy
Slim, Underworld, Ozric Tentacles e Dead Can Dance. Ma soprattutto gli Oasis.
Tra un giro in canoa ed una immersione, nacque il primo capitolo di Figli di una
Shamandura: quello delle ‘avvertenze’. Descrivevo il mio primo giorno a
El Tor, alla ricerca di un visto e, dato che c'ero, degli articoli casalinghi che mancavano in
casa. Ovvero tutti. Una nostalgia pazzesca. Verso settembre arriva una email di
Steve dall’Honduras: dice che al sud dell’Egitto, a Marsa Alaam, il governo egiziano
sta costruendo un aeroporto, sta vendendo terreni sul mare a 1 dollaro al metro
quadrato ed ha tolto le restrizioni alle società composte da stranieri.
A ottobre siamo tutti di nuovo lì, a Sharm e l Sheikh,
in
quattro nel solito appartamento, quello grande con vista mare, quello dov’erano
nate tante canzoni dei Deco-Boys. Tiriamo su un po’ di soldi lavorando da
free-lance e a dicembre partiamo per Hurghada armati di mappe, GPS, attrezzature
subacquee e fuoristrada. La prima cosa da verificare era l’aeroporto. Prendemmo
d’assalto l’obiettivo, un compound nel deserto, all’alba Il direttore dei
lavori, un olandese, invece di ordinare alla security di spararci, ci offrì un
caffè e ci mostrò un diorama, una planimetria e un capannone zeppo di
scavatrici. L’aeroporto lo stavano costruendo davvero.
Finimmo tutti a Wadi Lahmi, in un diving-lodge tendato. Io
avevo con me gli appunti e un laptop e la sera scrivevo e poi traducevo per gli
amici quello che scrivevo e loro ridevano, anche perché non c’era un asso da
fare. Eravamo soltanto noi quattro, poi il manager e due guide del centro
subacqueo. E il generatore. Non comprammo nessuno dei lotti in vendita. Anche
se potevamo permetterci un campo da calcio a testa scoprimmo che dovevamo
costruirci un albergo con piscina e tutto, e che un lodge spartano di poche stanze non
andava bene per ottenere la concessione. “E allora le tende?” Le tende? Erano di un generale delle forze
speciali. Fine. Tornammo tutti alla solita routine sharmese. Gli spunti per il
libro aumentarono esponenzialmente.
Max, il manager del centro subacqueo, sembrava preoccupato.
Si
domandava dove fosse finita la mia fame di immersioni notturne, con le quali ero
solito arrotondare bene lo stipendio. Ancora peggio, non mi si vedeva più in
giro per i bar. Più incuriosito che preoccupato, m’invitò a cena. Gli dissi che
stavo scrivendo un libro e lui – non finirò mai di ringraziarlo per questo –
prese il telefono e svegliò nel cuore della notte Alberto Siliotti, il patron
di GeoEgypy – Geodia, l’editore delle preziosissime guide alle immersioni: “C’è
uno del mio staff che ha scritto un libro…” Ci mancò poco che Alberto lo
mandasse affanculo ma anche lui era incuriosito e il giorno dopo mi chiamò per chiedermi
se avessi delle pagine da mostrargli. Gli portai le prime quaranta pagine
stampate. Le ficcò con poca convinzione in una cartella e se ne andò di fretta
lasciandomi da solo a El Fanar. Mi richiamò tre giorni dopo. Non riuscivo a
capire cosa stesse dicendo perché rideva forte. Bene, dunque. Era febbraio. A
maggio il libro era finito. Il resto della storia lo conoscete già.
Figli di una… Shamandura era piaciuto così tanto che volevano
tutti il seguito.
Gli spunti continuavano a fluire e presto arrivò Cani
Salati nel Profondo Blu. Ebbene, questi due libri dai titolo grotteschi mi guadagnarono molte collaborazioni
con magazine, documentaristi e quotidiani. Ma ero in trappola: i lettori
volevano che raccontassi sempre la stessa storia e io non sapevo come uscirne. Ne
pubblicai altri, fuori dal tracciato, ma nessuno raggiunse il successo di quei primi
due. Sapevo però che i lettori andavano accontentati: come me soffrivano la
mancanza di quei Figli di una Shamandura che animavano i miei racconti. Da
parte mia, sentivo il bisogno di quella sorta di ‘terapia di gruppo’ che uno
scrittore intraprende con i suoi personaggi. Sarebbe stato un libro diverso
dagli altri, sarebbe stato l’inno ad un’età dell’oro che abbiamo vissuto, o
soltanto sognato, tutti insieme, lettori e protagonisti. E un giorno mi sono detto:
“Quasi quasi li
accontento, ma per prima cosa deve essere una storia che prende me, che mi fa
fare tardi, che mi rende uno zombie, con i miei eroi che m’inseguono, che dialogano
nella mia testa mentre scelgo le zucchine al supermercato… uno di quei libri
che si scrivono da soli. Se no non se ne fa niente.”
Attento a cosa desideri, scrisse Richard Bach, perché i tuoi
desideri potrebbero avverarsi.