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1500 metri di profondità, per noi umani di superficie, sono una distanza spaziale. In un mondo senza luce i componenti più pesanti del petrolio hanno creato lingue nere grandi come l’isola di Manhattan, strati di idrocarburi alti 90 metri e tappeti gommosi spessi come l’asfalto delle autostrade. Miliardi di larve di crostacei che costituiscono buona parte del plankton, base della catena alimentare marina, sono state soffocate. I batteri che riescono a metabolizzare metano hanno fatto il loro lavoro oltre le aspettative, dicono i ricercatori, ma anche questa non è una buona notizia: non è chiaro quanto ossigeno i batteri abbiano tolto al mare per spezzare le molecole dell’idrocarburo. Un mare senza ossigeno è un mare di morte. Morte senza confini. Possiamo paragonare il Golfo del Messico ad una gigantesca nursery di plankton e di altri organismi marini, e la corrente del golfo ad un vento benefico, ricco di nutrienti. Ora molti di quei nutrienti non ci sono più. Al loro posto ci sono le tracce, misurabili in parti per milione, di idrocarburi. Viene in mente il paradosso di un lento processo di desertificazione dell’Atlantico. Lento, inesorabile, gigantesco. E invisibile. Piangiamo per la morte ed il soffocamento di pellicani, tartarughe e delfini, ma nessuno di noi è in grado di commuoversi o arrabbiarsi per lo sterminio del plankton: provare dolore per un microorganismo è fuori dalla nostra portata emozionale. Ben lo sanno i petrolieri ed i loro clientes: invece di rimuovere gli inquinanti si sono affannati per ricoprire di sabbia ‘pulita’ le spiagge. Hanno usato dispersanti al bando, ancora più dannosi del petrolio, per smacchiare in fretta le acque del Golfo. Hanno osato dare il nome Macondo a quel maledetto giacimento in fondo al mare. Povero Gabriel Garcìa Màrquez, non lo meritava neanche lui.
NB: questo articolo è stato pubblicato da il Corriere del Ticino, il 19 -01 - 2012 per la rubricamari e spiagge
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